Tommaso Labranca – Coniglio Viola Valentino

Viola Valentino nell’opera di ConiglioViola non è il semplice oggetto di un hommage né di una insostenibile presa in giro altezzosa della cultura popolare per ammiccare a un pubblico fintamente raffinato. Viola Valentino e Berté, Marcella, Alice, Milva sono come i treni sullo sfondo dei quadri di De Chirico o come i pagliacci in quelli di Picasso.

Le dive-cantanti sono elementi reali del quotidiano, trasognati dagli artisti e quindi inseriti di peso nell’opera d’arte. Perché ognuno rappresenta o narra ciò che ha intorno e quando gli scrittori di Bagnacavallo si stancano di narrare il borgo natio e si trasferiscono con la mente a Zurigo, fanno delle figuracce perché a Zurigo non sono mai stati e la descrivono come Bowie descriveva il freddo di Varsavia stando nel tepore di uno studio di registrazione dentro un ricco castello francese, con poche idee che galleggiavano su una Vistola manierata.

Ai critici però piacciono queste elucubrazioni storico-geografiche pasticciate, ma che nobilitano un quotidiano che essi odiano. E piacciono ancora di più quando possono versarvi sopra la salsa della psicanalisi. Sotto la spinta, magari, di un annoiato professore di filosofia, uno che avrebbe voluto scrivere testi importanti e invece era costretto a insegnare al liceo Bartoletti per mantenere la famiglia. Questo cattivo maestro un giorno accennò alla Psicopatologia della vita quotidiana di Freud. Il critico era nei primi banchi ad ascoltarlo, mentre il resto della classe giocava al Fantacalcio. Forse in quel momento la vita quotidiana, fatta di noia e calcio, assunse per lui valori negativi, al punto da divenire psicopatica. Il cattivo professore passò un’altra mattinata illustrando il quadro di Leonardo in cui si individua la sagoma di un uccello. Da allora il critico ha iniziato a vedere ogni opera d’arte come un gioco enigmistico. Tipo: riempite gli spazi contrassegnati da un puntino e qualcosa apparirà. La cosa è peggiorata quando molti giovani artisti si sono accorti di questa tendenza e hanno capito che il modo migliore per conquistare la Critica Psicopatologica era diventare psicopatologici a loro volta. Così hanno iniziato a inserire volatili capovolti nascosti nelle loro opere. Tutti contenti dunque. I critici felici ogni volta che risolvono il gioco enigmistico, gli artisti felici perché elevati al ruolo di nevrotici e i galleristi felici perché grazie a queste patologie fanno più soldi degli psicanalisti lacaniani.

Invece Viola Valentino nelle opere di ConiglioViola non ha rimandi psicoanalitici nascosti. Viola è come la Rosa di Gertrude Stein: è una Viola è una Viola è una Viola. Guarda caso, proprio quella Stein che racconta di quando insieme a Picasso e ad altri scrocconi di via de Fleurus andò una sera a vedere il circo Medrano a Parigi. Ne furono entusiasti al punto che Picasso ricomincò a dipingere pagliacci, come già aveva fatto in Spagna, attingendo a un entusiasmo nato nel quotidiano e non nei meandri della psicoanalisi. Allo stesso modo in cui ConiglioViola attinge a un quotidiano infantile di venti anni fa, ai gusti musicali di sorelle maggiori che seguivano nei Festivalbar le dive del tempo, che allora apparivano irraggiungibili. E che oggi magari sono presenti nelle rubriche dei cellulari di Brice Coniglio. Ma la vicinanza non ne sminuisce la portata storica perché sono sempre state così: dive lontane ma, allo stesso tempo, «familiar in his mouth as household words», come dice Shakespeare nell’Enrico V.

Le dive-cantanti di ConiglioViola sono infatti un elemento household, casalingo, oggetto di conversazioni familiari a tavola con le sorelle, fan scatenate. Così come i treni di De Chirico erano oggetto delle conversazioni familiari a tavola con il padre, ingegnere ferroviario. Treni, pagliacci e cantanti che non sono frutti di Seelenkrankheiten, ma visioni del quotidiano. C’è però un livello successivo che rende magici quegli elementi quotidiani, che li fa diventare arte e non solo perché vengono esposti in un museo. È la capacità trasfigurativa dell’artista che sa individuare nelle cose anche più banali aspetti che i non-artisti non riescono a vedere.

Le dive-cantanti di ConiglioViola vengono elevate a potenza quando sono cristallizzate nella perfezione del loro massimo splendore, avvolte nell’ambra del ricordo che non le fa invecchiare. Scompaiono i difetti dei vestiti, le stonature di qualche esibizione dal vivo, la confusione dei cavi sul palco, il sudore. L’intervento tassodermico di ConiglioViola toglie all’animale che videoimpaglia ogni sgradevolezza. Tutto diventa magico, luccicante, perfetto. È un intervento facile, in fondo, perché già il materiale originario grondava fantasia. Le dive-cantanti dei primi anni Ottanta erano maschere che si rinnovavano a ogni stagione. «Che look presenterà la Berté quest’estate?», ci si domandava con ansia prima di addormentarsi. E si restava incantanti di fronte a una Loredana vestita da pirata o da suora, alla Factory di Warhol o sotto una cascata. Davanti a una Rettore che di anno in anno era protagonista di un morphing che da extraterrestre la mutava in kamikaze la mutava in cantante del west. Decenni dopo ci fa ridere vedere Madonna che rifà le stesse cose della diva di Castelfranco Veneto. Ma lo fa con più soldi e quindi riesce ad arrivare anche in Indonesia, mentre per Rettore già il Canton Ticino era una conquista. Purtroppo l’Italia ha perso il predominio artistico nel mondo sin dal XVII secolo.

A differenza delle normali opere tassodermiche, però, quelle di ConiglioViola non sono malinconiche. Una volpe impagliata, con la zampa sollevata a fingere una patetica vitalità e gli occhi di vetro che non tradiscono paura né furbizia, è triste. L’imbalsamazione digitale della Milva 1982 ne immilla invece lo splendore originario. Splendore ancora più abbacinante se lo si raffronta a quello che è venuto dopo. Negli anni Ottanta la Diva era la cantante pop mutevole, trasformista, sorprendente. Nel decennio successivo la Diva assunse le forme stucchevoli, capricciose e arroganti delle top model riunite come per una foto scolastica in un video di George Michael. E dieci dopo ancora le Dive che fanno sognare gli onanisti da chat sono le vuote soubrettine televisive, le veline esplosive, le conduttrici in minigonna e tacco a spillo, le frequentatrici di professione della Costa Smeralda, tutte così sovrapponibili e inutili. E cosa succederà negli anni Dieci, quando le immaginifiche dive-cantanti degli Ottanta cozzeranno con le loro discendenti, verosimilmente le sportive, nuotatrici in testa?

In fondo non ci interessa. Per alcuni di noi il divismo continuerà a essere quello che vedevamo sul palco di Sanremo o nei primi luccicanti varietà Mediaset tra il 1978 e il 1985. Vivremo imbalsamati anche noi, fissando in loop queste dive-cantanti altrettanto imbalsamate nei file .avi, mentre fuori il mondo andrà avanti senza il nostro contributo.

Tommaso Labranca

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